I dazi USA fino al 25% rappresentano una minaccia per l’industria e l’export europeo a causa del protezionismo degli Stati Uniti. Chi sopporterà il costo maggiore?
Dazi USA come strumento di negoziazione commerciale e diplomatica
Il “Liberation Day” è arrivato, il momento in cui Trump ha annunciato l’introduzione di nuovi dazi sulle importazioni. Fin dal suo insediamento, il presidente non ha perso tempo, avviando fin dai primi giorni alla Casa Bianca (sebbene con alcuni ripensamenti) l’erezione di un vero e proprio “muro” di tariffe che circonda l’economia statunitense.
Cosa implica tutto ciò? Si tratta senza dubbio di un cambiamento radicale rispetto al passato recente. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno rappresentato sia i leader che i principali sostenitori del libero commercio internazionale, promuovendo la riduzione dei dazi tra le nazioni e la globalizzazione delle catene di produzione come base dell’attuale sistema economico globale. Ora Trump sembra voler invertire questa tendenza, riportando indietro l’orologio di quasi un secolo.
Trump ha imposto dazi anche su alcune categorie di beni, come acciaio e alluminio, e ha mirato a diversi paesi. Cina, Messico e Canada sono stati tra i primi obiettivi, seguiti successivamente dall’Unione Europea e da altre nazioni.
Se durante il suo primo mandato la guerra commerciale di Trump si concentrava soprattutto su Pechino, oggi il presidente ha cambiato approccio, estendendo la sua politica anche agli alleati. Non solo ha messo in discussione l’accordo di libero scambio nordamericano (USMCA), ma ha anche attaccato duramente l’UE, accusandola di approfittare della liberalizzazione commerciale degli Stati Uniti.
Trump sembra inoltre considerare i dazi non solo come uno strumento di politica commerciale, ma anche come un mezzo di politica estera. Gli ultimi annunci mostrano chiaramente come le tariffe siano state impiegate per sollecitare alcuni paesi a collaborare con le politiche statunitensi riguardo alla deportazione e rimpatrio di migranti, o nella lotta contro il traffico di droga, in particolare quello di fentanyl.
Dazi USA: ecco cosa cambia
Il dazio medio applicato al commercio americano passa dall’1,4% durante gli anni di massimo liberalismo economico al 28%, un livello che si avvicina a quello del periodo di protezionismo e isolazionismo antecedente alle due guerre mondiali. Più di un secolo fa, quando il commercio internazionale rappresentava meno dell’8% del PIL globale, una cifra inferiore a meno di un terzo rispetto al 29% di oggi.
Analizzare con precisione le barriere commerciali è complesso, ma i dati forniti dalla Casa Bianca sembrano non essere supportati da solide basi teoriche. L’Asia è stata colpita per evitare che Pechino aggirasse le misure, mentre l’Unione Europea dovrà affrontare un dazio supplementare del 20%, accusata di “approfittare” degli Stati Uniti.
Oltre a tentare di riportare la produzione negli Stati Uniti, Trump spera che i dazi possano generare entrate sufficienti a ridurre il deficit federale. Tuttavia, questa è una visione irrealistica. Le entrate aggiuntive derivanti dai dazi si aggireranno intorno ai 600 miliardi di dollari l’anno, ma il deficit federale è di circa 1.800 miliardi, cioè tre volte tanto.
Inoltre, se Trump desidera rifinanziare il taglio delle tasse introdotto nel 2017, avrà bisogno di altri 450 miliardi. Il risultato? Il deficit potrebbe diminuire solo marginalmente, senza considerare gli effetti distorsivi che queste politiche potrebbero avere sull’economia statunitense.
L’illusione dei numeri della Casa Bianca sui dazi
L’Europa si trova ad affrontare un dazio aggiuntivo del 20%, con Trump che sostiene di aver concesso uno “sconto”, riducendo il dazio previsto originariamente. Tuttavia, quanto c’è di vero nelle affermazioni della Casa Bianca? Sembrerebbe ben poco.
Nonostante l’amministrazione statunitense faccia riferimento a “barriere monetarie e non”, queste non sembrano essere supportate da dati concreti. Inoltre, il metodo utilizzato per calcolare queste barriere lascia molto a desiderare. Nell’equazione pubblicata dalla Casa Bianca, non c’è traccia di un approccio fondato su elementi chiari. Anzi, si parte dalla premessa che qualsiasi deficit commerciale sia negativo e vada riequilibrato tramite l’imposizione di un dazio corrispondente.
Inoltre, il principio di “reciprocità” è stato totalmente ignorato da Trump, che ha deciso di colpire duramente i partner commerciali asiatici, inclusi Giappone e paesi del Sud-Est asiatico. Se si cerca una logica geopolitica dietro queste misure, si potrebbe ipotizzare che gli Stati Uniti vogliano prevenire eventuali “aggiramenti” da parte di Pechino, come già accaduto in passato con il Messico.
Trump ha anche riservato a sé il potere di rivedere i dazi, sia aumentandoli che riducendoli, in base alle reazioni dei partner commerciali. La sua imprevedibilità è ben nota, ma la domanda sorge spontanea: è questa una strategia per ottenere condizioni più favorevoli per gli Stati Uniti?
I dazi USA: una speranza infondata per abbattere il deficit federale
Oltre a tentare di riportare la produzione negli Stati Uniti, Trump immagina che i dazi possano generare entrate sufficienti a ridurre il deficit federale. Tuttavia, questa è una mera illusione. Nel 2024, il deficit federale americano ha raggiunto i 1.800 miliardi di dollari. Nel frattempo, il fisco ha incassato circa 77 miliardi di dollari in dazi, cifra che è più che raddoppiata rispetto ai 35 miliardi del 2017, l’anno prima dell’inizio della prima “guerra commerciale”. Eppure, questa cifra è ben lontana dall’effetto che, secondo la Yale University, potrebbero avere i dazi previsti quest’anno. Infatti, nei prossimi dodici mesi, gli Stati Uniti potrebbero raccogliere circa 600 miliardi di dollari in dazi, un aumento significativo rispetto ai 35 miliardi del 2017 e ai 77 miliardi dell’anno scorso.
Tuttavia, anche con questi nuovi introiti, non sarà possibile coprire il deficit federale.
Inoltre, Trump ha indicato l’intenzione di rifinanziare il taglio delle tasse varato nel 2017, il cui costo annuale si prevede possa essere di circa 450 miliardi di dollari. Risultato? Nonostante i dazi “storici”, il deficit federale diminuirebbe solo marginalmente, e con l’aumento degli interessi sul debito, questa diminuzione potrebbe rivelarsi insufficiente a risolvere il problema a lungo termine.
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